Quando il fratello ti diventa scrittore…

In questo mese di “La tentazione di essere felici” ho ricevuto tanti complimenti, abbracci, sorrisi, pacche sulle spalle, baci, strette di mano, ho conosciuto molte persone nuove, sono entrato negli studi televisivi e in quelli radiofonici, ho risposto con entusiasmo ai commenti dei lettori e delle lettrici che desideravano mostrarmi il loro affetto, e ho letto le tante recensioni che arrivavano ogni giorno.

E poi, oggi, in mezzo a questo gioioso caos, è apparso un articolo, che mi piace chiamare lettera. E’ questo qui sotto.
Lo ha scritto mio fratello.
E parla di me, di quel me che viene da lontano. Un me ragazzo visto con gli occhi di un adolescente. I suoi.
E quindi c’è anche lui in queste parole. Ci siamo noi: due fratelli, anzi tre fratelli, cresciuti in epoche diverse, case diverse, con madri diverse. C’è, soprattutto, quella luce, “che permea le persone prima di diventare adulti, ed è l’unica luce possibile in cui invecchiare”, e ci sono le “cose vere”, che scorrono sempre sotto la superficie, perché per restare a galla non devi avere peso.
E, invece, questa lettera peso ce l’ha, e allora è giusto che stia anche lei lì, sotto la superficie, fra le “cose vere”.
Quelle che contano.
Quelle che scorrono sempre in un’unica direzione: il cuore.

***

Questa è una di quelle cose che andrebbero scritte su un blog, se esistessero ancora i blog com’erano una volta: il susseguirsi spontaneo di pensieri sparsi. E a caso.

Parte da un punto, ovvero che mio fratello in quest’ultimo mese è diventato uno scrittore. Ma scrittore davvero, per Longanesi, in classifica, in radio, e tutto.
E lo è diventato in modo del tutto imprevisto, e imprevedibile: bellebbuono, come si dice a Napoli. Un po’ perchè nessuno sapeva lui scrivesse, insomma, lui scriveva da 15 anni più o meno (ora ne ha 40) e nessuno lo sapeva. Di nascosto, dietro un suo carattere schivo e introverso, e per lo più fragile. E un po’ perchè a un certo punto è arrivato Longanesi con la sua potenza di fuoco, e ha creduto su di lui. Lorenzo, Lollo.
E così nel giro di un mese ci siamo ritrovati tutti così, mezza bocca aperta, con il nome di Lollo che girava dappertutto, in classifica su IBS, con le recensioni, al TG5, a Berlino, le storie, i lettori che commentano e si fanno le foto. Lollo, lì, dove nemmeno 3 secondi prima pensavi di ritrovartelo. Dove nessuno prima nemmeno sapeva, che ci sarebbe saputo essere.

Ora, un fratello non è che può scrivere una recensione del suo libro, suonerebbe vagamente ridicolo, e nemmeno stare qui a tessere le lodi, o a fare il felice (quelle sono cose che uno si tiene per se, lontano dal marketing).

Però può raccontare una cosa, che dice molto di lui, e dice molto di noi, noi lettori, noi che facciamo le cose, noi che proviamo a fare le cose.

Quando io avevo 13/14 anni, quell’età meravigliosa in cui ti si squaderna il mondo davanti, incominciai a riconoscere mio fratello. Lui aveva 10 anni in più, quindi fino a che ero un bambino c’era poco da dirsi, poco in cui riconoscersi.
Era per me quell’età strana, e bellissima, e vergine, in cui il negativo del proprio sguardo riesce a imprimere la luce di tutto, senza mai confliggere con niente. L’età in cui il cassetto è vuoto e ci sta dentro tutto.

E vivevo (vivevamo) in una famiglia per lo più borghese, classica, quasi interamente di avvocati. Colta, si, ma quadrata. Irrigidita da regola scritte secoli prima, da costituende mai riconosciute, secondo prassi a me allora per lo più imperscrutabili.

Dopo scuola tornavo a casa, pranzavo, e dopo poco andavo a trovare Lollo. (prima di lui dopo pranzo andavo da mio zio, ma morì, ma questa è un’altra storia). Lollo in quegli anni aveva 23/25 anni, che è quell’età un pelo prima di diventare davvero adulti (aveva ancora i capelli, per dire).
Questo giusto per dire che siamo stati, per poco, nello stesso momento dueragazzi.
E quello che oggi ricordo con nitore, è che lui stava lì in un mondo effettivamente diverso, proprio fisicamente diverso. Me ne accorgo ora.
In una casa di avvocati lui aveva una stanza, e quella stanza era effettivamente diversa dalle nostre case. Aveva, nell’ordine: 3 acquari, due computer, una treccani di videogiochi, una playstation, uno stereo pazzesco, una marea di CD, film e dvd ovunque, una batteria, e due band con cui suonarci.
Io avevo 13 anni e tutto quello era meraviglia. Era, per quell’età, una di quelle cose da cui assorbire tutto.
Evidentemente lui sotto, lì dove scorrono le cose vere, coltivava, unico della famiglia, altro dal lavoro. Altro dal regolato. Qualcosa al lato del binario.
E su quello ci perdeva la testa. (essendo uno per lo più ossessivo paranoico, tra l’altro).

Poi è successo che lui è diventato adulto, e io anche. Quella roba per cui devi procacciarti il cibo, stare in società, pagare l’inps (ovvero mantenere un pensionato), andare in vacanza in coppie, e le donne prima di dartela ti chiedono “che lavoro fai”.
Insomma quel mondo osceno in cui il tuo lavoro è il contenitore della tua vita. E non viceversa.
Lui ci è stato dentro soffrendo non poco (ma con la lungimiranza di mantenersi una sola donna, ovvero la moglie eccezionale che ha ora). Niente acquari, niente band, niente videogiochi. Per un bel po’ di anni.

Sono passati quasi 20 anni da quando andavo dopo pranzo da lui. E ora lo vedo li in classifica, lì che scrive libri, e che ne scrive ancora di continuo, non più di nascosto, e finchè glieli pubblicano. E sono felice. E mi rendo conto che non sono felice per il successo, sono felice perchè lo ritrovo di nuovo chino sulle sue passioni, chino sui suoi sogni. E non posso non riconoscere che è l’eco di quegli anni.
E non riesco a non vedere come, in certe cose della nostra vita, la luce che permea le persone prima di diventare adulti, è l’unica luce possibile in cui invecchiare.
E in lui vedo la bellezza di riuscirci, di provare a riuscirci, o quanto meno di avvicinarcisi. Prossimo all’istinto che ognuno di noi ha, prossimo al cuore dei nostri desideri. Lontano dalle beghe di una quotidianità per lo più svilente, e vicino alle tensioni a cui ognuno di noi vuole tendere.

Capendo che in qualche modo se si riesce a toccare quel filo forse si è davvero felici, e lo è anche chi ti è intorno. Me compreso.

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